Bling Ring: una vetrina sul nulla

Se qualcuno mi chiedesse di riassumere in due righe Bling Ring, il film appena uscito nelle sale italiane, senza battere ciglio direi: “La trasposizione cinematografica delle deprimenti gesta di un’insopportabile ricca gang di ragazzini alterati, ossessionati da Paris Hilton, che rubano, urlacchiando, in preda a una delirante eccitazione, abiti e oggetti firmati aventi nomi propri, dentro case di altrettanti mitomani per poi postare foto a raffica su Facebook”.

Le domande più profonde che sono riuscita a pormi di fronte allo schermo sono:

  • Veramente su google trovi gli indirizzi di chiunque?
  • Sul serio le ville statunitensi da miliardi di dollari di noti personaggi non hanno neanche il più blando sistema di antifurto?
    …Né cani, né custodi? ..Ed è possibile che siano tutte ornate di gigantesche vetrate rigorosamente aperte?
  • Parsi Hilton ha davvero la casa imbottita di quadri che la ritraggono e cuscini con la sua effigie stampata sopra?
  • ..Ma chi lascia quelle macchine aperte?!?

Insomma una serie di questioni che potrebbero animare la prossima stagione dei misteri di Kazzenger di Crozza.

Non che sia di per sé un brutto film.. il ritmo calzante, il montaggio, la musica rendono perfettamente tutta la vacuità di quello che ci viene proposto: una ulteriore vetrina sul nulla, un nulla che in fondo è ben messo, ben fatto, ben pettinato e ben vestito, che riproduce esponenzialmente tutta l’assenza di senso che aleggia intorno alla plasticità degli abiti firmati e di chi li osanna, che siano essi Celebrities o persone comuni. La moda, la ricerca della popolarità, l’eccesso, alcune compulsioni che la nostra società quotidianamente rimpinza disperatamente di valore per specularci sopra e annegare la sua consapevolezza, sono tutti ingredienti presenti nel film.

La Coppola scegliendo di raccontare questa vicenda, di darle visibilità, di narrarla in questo modo, ci consegna il suo punto di vista, probabilmente altrettanto nichilista, in un finto documentario che sceglie di non aggiungere altro su una realtà che non vuole e non prova neanche a decifrare, dietro il quale si cela tutta l’arrendevolezza di un “cinema spettatore” e spettacolarizzato. Un cinema a cui non rimane che osservare se stesso, compiacendosi delle sue belle immagini cool fatte di guardaroba scintillanti e cambi d’abito, ricolme di tutti i must del momento.
Un cinema che sceglie di raccontare quello che paga.

I reali protagonisti della vicenda mettevano a segno questi colpi nel 2009, sempre nel 2009 usciva in Italia I miti del nostro tempo di Galimberti, altra faccia della medaglia.
Credo che la lettura de “il mito della moda” possa essere un sano antidoto e un ottimo atto di purificazione dopo la visione del film.

R.N.

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